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La Rosa dei Venti

Il Totem della “Rosa dei Venti” apre, dal 2010, il Corteo di Carnevale di Scampia: ogni anno viene aggiornato il numero del corteo e il titolo, mentre sul retro si legge “Il sogno di uno è utopia, il sogno di molti è l’inizio di una nuova realtà” e sui fianchi i nomi dei vari gruppi che si sono avvicendati negli anni partecipando al Corteo di Carnevale di Scampia.
La “Rosa dei Venti” fu realizzata nel 2009 come carro positivo presso i laboratori del GRIDAS. Questo è l’estratto del comunicato stampa di quell’anno:

27° Corteo di Carnevale 22 febbraio 2009:
PRESENZE/ASSENZE: chi c'è sbanca, chi non c'è manca

“A contrapporsi alle onnipresenze di turno, una rosa dei venti i cui punti cardinali sono rappresentati da alcune persone emblematiche che hanno indicato un cammino di coerenza tuttora valido nonché da alcuni valori fondamentali come la giustizia, la dignità, che possono guidare come punti fermi e direzioni corrette in un percorso che ripudi ogni sopruso chi non si lascia abbindolare dal tartassamento televisivo ma ragiona con la propria testa e la propria coscienza e compie scelte condivise senza passare sulla testa di nessuno. La base della struttura portante è, dunque, arricchita da striscioni, slogans, bandiere, di quei movimenti dal basso che a queste indicazioni, a questi valori, si ispirano e si contrappongono, con una effettiva presenza sulla scena mondiale, alle imposizioni e agli abbindolamenti mediatici che ci vorrebbero tutti omologati. Ci sono quindi i movimenti NO TAV, NO DAL MOLIN, i vari comitati cittadini per una corretta gestione di acqua, rifiuti, energia oltre a esperienze di economia alternative al libero mercato come il commercio equo e solidale, ma anche le produzioni dal basso e tutti quelli che resistono e fanno informazione indipendente.”

L’anno successivo, la “Rosa dei Venti” è diventata un totem a sé che apre il Corteo di Carnevale di Scampia. Dal comunicato stampa di quell’anno:

28° Corteo di carnevale di Scampia, 14 febbraio 2010:
ASILI AN-NEGATI / PERCORSI RITROVATI

“Ad aprire il corteo: un Totem che racchiude il senso di questi primi 28 carnevali di Scampia: si riconosce all’apice la rosa dei venti, recuperata dallo scorso corteo, con i nomi delle persone e dei valori cui ci ispiriamo e che continuano a segnare un cammino coerente da percorrere insieme. Ma anche la mano con le case con la porta aperta: simbolo di accoglienza per le diverse culture e espressioni di pensiero in armonia e nel rispetto della natura. Sulle fiancate i nomi delle varie realtà che partecipano a questo appuntamento ormai tradizionale per Scampìa, e il titolo del corteo di quest’anno.”


Qui uno scritto di Franco Vicario inserito nel libro “Scampia Trip - restare e (r)esistere a Scampia” (AA.VV., a cura di Daniele Sanzone, edizione ad est dell’equatore, 2010):


La rosa dei venti

Quando qualcuno le chiede che cos’è il Gridas (gruppo risveglio dal sonno con sede nel Centro sociale di via Monterosa a Scampia), Mirella risponde con una frase semplice: “il Gridas è un modo di essere”. E quando viene detto o scritto che Felice ha lasciato un grande vuoto in chi lo ha conosciuto e ne ha potuto condividere anche un solo pezzetto di strada, Mirella, con altrettanta semplicità, risponde che Felice, al contrario, ci ha lasciato un “pieno” di straordinaria, incommensurabile, umanità. Un pieno di tante cose che non basterebbe un libro per descriverle tutte. Una umanità di una ricchezza non misurabile nelle centinaia di murales che hanno abbattuto e dato voce e colore al grigiore di altrettanti muri di scuole, di strade, di edifici sparsi per Scampia, per Napoli e provincia, per l’Italia e anche all’estero o nelle estenuanti ma improrogabili attività di laboratorio con i bambini delle scuole e della strada, ovunque fossero. O ancora nella inesauribile produzione scritta, le cui parole, anche quando erano parole di indignazione e di denuncia, erano, nella loro verità espressa da un pensiero libero, una poesia ed un canto per risvegliare dal sonno le coscienze degli uomini oppressi e soggiogati in ogni luogo del mondo. Una umanità ed una ricchezza che vanno molto al di là della genialità creativa, propria dell’artista non integrato e non omologabile a schemi precostituiti, perché la sua vicenda umana si è snodata all’interno di un percorso in cui ogni energia è stata spesa, nell’assoluta gratuità, senza limitazioni, in tutte e per tutte quelle periferie fisiche e mentali. Là dove c’era maggiore necessità di avviare e di condividere una quotidiana esistenza con quella parte di umanità indifesa e offesa nella dignità, inevitabilmente lasciata e consegnata alla marginalità della vita e della storia da un potere politico autoreferenziale e strafottente. Quella parte di umanità che nella gerarchia della scala sociale è definita come quella degli ultimi, dei poveri cristi, quella parte che fa fatica anche a prendere solo coscienza della propria condizione, ritenuta ineluttabile e a cui, forse, appare persino inutile ogni ipotesi di ribellione e di riscatto. E a pensarci bene, tutto sommato, non c’è sostanziale distinzione, né soluzione di continuità, tra quelli che erano i senza tetto storici, i baraccati dei campi Arar di mezzo secolo fa e i nuovi “baraccati” della mostruosa edilizia delle periferie metropolitane, delle “vele”, dei quartieri popolari, anche se al centro della città, dei campi rom nella loro agghiacciante invisibilità. Li accomuna, senza a volte rendersene conto, nel chiuso dei loro cimiteri familiari, coi lumini sostituiti da soporiferi televisori LCD ultimo modello, il loro essere ostaggio e vittime, senza apparente via d’uscita, dell’incrocio tra quella violenza e quella prepotenza rappresentate dalla stratificazione e dal consolidamento della cultura camorristica da un lato e dall’acquisizione sempre più evidente della stessa mortifera cultura da parte di chi istituzionalmente invece dovrebbe contrastarla e combatterla con ogni mezzo. E la cultura camorristica, forte ormai di un impero economico capillare e accattivante, è un germe che ha trovato e continua a trovare facilmente il suo umo nella maggior parte della gente cosiddetta comune, “‘e chi nun vò sentì e fa finta ‘e nun capì” o che non ha più la capacità di percepire i confini tra il legale e l’illegale, tra l’equo e l’iniquo, tra l’eticità e l’immoralità dei comportamenti, soprattutto in assenza di politiche economiche e sociali che diano risposte, se non risolutive, ma almeno che facciano intendere una chiara volontà di impegno e intravedere una direzione nella quale indirizzare le energie per operare un tentativo di cambiamento e di rovesciamento dell’attuale modello sociale di convivenza. Ma come pensare o sperare di ottenerlo dalla classe dirigente di turno, dai politici, dagli amministratori? Gli stessi che lo hanno reso possibile, quelli che hanno costruito vele di cemento sanguinante pensando, non si sa bene, se alla Costa Azzurra o ad una improbabile riproposizione dell’economia del vicolo in mezzo a giardini incolti concimati di eroina e ville di quartiere scarsamente frequentate con piante esotiche nascoste alla vista. Quelli che hanno progettato il fallimento di fasulle piazze telematiche e altrettanto fasulle piazze, squallide nella loro desolazione, in stile “San Pietro” per parate militari e conclavi attraversate solo da saettanti e roboanti moto di grossa cilindrata. Quelli che hanno costruito asili negati all’infanzia, strutture sportive e campi di calcio di serie superiore abbandonandoli all’incuria del tempo e dell’uomo. Quelli che hanno colpevolmente ignorato, nonostante i segnali di fumo, intere comunità rom pre-esistenti alla nascita del quartiere stesso, con generazioni di nati, cittadini autoctoni, invisibili solo per l’anagrafe del comune. Anche questo è un modo di essere, solo che è il modo di essere criminale di chi si occupa dei problemi incurante degli effetti devastanti, da macelleria sociale, causati da scelte, o non scelte, politiche completamente avulse, non solo dai desideri, ma dai bisogni fondamentali dei destinatari con il rischio crescente di alimentare nel disperato del ventunesimo secolo, continuamente illuso e disilluso, quell’istinto antropofagico alla sopravvivenza non potendo neanche invocare l’aiuto di San Ghetto, il santo delle periferie (vedi sito Gridas-felicepignataro.org), che puntualmente ogni anno durante il corteo di Carnevale del Gridas, percorrendo le strade di Scampia, prova a intercedere e ad esaudire le richieste di voto in nome del popolo di Scampia possibilmente prima dell’annunciata imminente fine del mondo. C’è un argine per evitare la deriva nella quale ci sentiamo spinti da forze apparentemente difficili da contrastare? L’argine, per noi, esiste. L’argine è ben rappresentato dalla rosa dei venti, posta sul lato anteriore della struttura che apre il corteo di carnevale i cui punti cardinali e intercardinali recano il nome delle persone che hanno vissuto e sono morte lavorando e dedicando la vita per aprire frontiere, abbattere muri, e, “furzann’ ‘a mascatura de suonne”(1), come canta Daniele Sanzone, fare ipotesi di mondi nuovi abitati da uomini solidali. Sul lato posteriore della struttura invece vi è una grande mano che reca nel palmo una casa con la porta aperta a simboleggiare l’accoglienza intesa come valore comune universale, ma anche per ricordare il grande dono che hanno ricevuto gli uomini, rispetto agli altri animali, di uno strumento, quale è la mano, per creare tutto quello di cui sono capaci, tutto quello di cui sono capaci le mani delle persone che investono tutte le loro energie nelle associazioni che condividono il percorso. Questo è l’argine. Questo è l’argine descritto da Felice, da Mirella e sta nel nostro modo di essere che non è alternativo a quello istituzionale o comunque quello di chi se ne frega, perché va esattamente nella direzione opposta, che non è la direzione di chi ha una visione romantica del mondo, ma al contrario, di chi è consapevole che solo una prassi quotidiana di impegno e di azione condivisa può consentire di uscire dalla solitudine nella quale ci si rinchiude per la difficoltà a volte di vincere le proprie ansie, le depressioni individuali e collettive, le paure sia fisiche che mentali, dove spesso si rinchiudono le persone, dove spesso si rinchiude colpevolmente e comodamente l’intellettualismo, non importa se funzionale o critico del sistema, o “l’intellettuale” che si guarda bene dallo sporcarsi le mani limitandosi essenzialmente all’analisi critica degli eventi senza viverli nelle viscere del mondo restando osservatore della propria fine. L’argine è il modo di essere di chi insieme a noi da anni nel quartiere Scampia lavora alla costruzione di una identità diversa da quella rappresentata e mediata, quasi a livello planetario, in maniera monotematica negativa, senza tenere conto che invece incomincia a diventare forte l’impegno e l’azione di una miriade di associazioni e di realtà varie, di cui molte collegate in rete, che condividono la prassi e le utopie di Felice dipinte sui muri da mani di bambini, ormai adulti, dal cuore innocente, che descrivono come in un sogno quello che lentamente si sta realizzando. Come se le pagine sbiadite del libro, in qualche modo profetiche, rappresentato in un’opera murale sulle pareti perimetrali della scuola dismessa Virgilio 3 di via Fratelli Cervi, in cui si ipotizza il desiderio di vivere nel mondo sognato dai bambini, si stessero trasferendo e materializzando nel mondo reale. Ora a Scampia ci sono dei luoghi dove poter suonare anche con strumenti improvvisati nella coralità di una improbabile banda; ci sono luoghi dove poter fare sport, nuotare, calciare, fare arti marziali grazie all’impegno di seri esperti del settore; ci sono luoghi dove incontrare scrittori e poeti e ci sono case editrici (penso alla straordinaria esperienza di Rosario dei VO.DI.SCA), vi è un giornale di vita reale come “Fuga di notizie”(2) che festeggia i suoi vent’anni di vita, ci sono attività teatrali; ci sono cineforum dalla programmazione, in gran parte di produzioni dal basso, di documenti e di film di straordinaria unicità, che non passano nei luoghi della cosiddetta cultura ufficiale; ci sono gruppi musicali più o meno noti; ci sono associazioni di volontariato che conducono un estenuante lavoro a fianco dei più marginali, di quelli che a molti danno fastidio, lavorando all’interno dei campi rom, all’interno dei lotti più difficili, all’interno degli istituti di igiene mentale nel tentativo di dare ai più fragili della scala sociale consapevolezza dei propri diritti. Ci sono scuole di ogni ordine e grado che solo in parte, per i tanti problemi che si ritrovano ad affrontare, riescono ad essere laboratorio di prospettive di cambiamento e di costruzione dell’uomo nuovo che verrà, ma sulle quali bisogna assolutamente investire sostenendo con forza tutte le iniziative di ampliamento degli indirizzi di scuola superiore, non ultima quella dell’apertura, nel settembre prossimo, di una scuola alberghiera che possa offrire anche spiragli di effettivo lavoro al termine del corso di studio. Ci sono tantissimi gruppi e associazioni di vero volontariato, ci sono gruppi e persone che investono il loro tempo nel seguire le problematiche di carattere ambientale e di riqualificazione urbanistica di un territorio devastato da architetture che pare siano state fatte apposta per rinchiudere e imprigionare le persone, come se non bastasse la presenza del carcere di massima sicurezza, presentato all’epoca come nuovo e moderno modello di regime penitenziario. E, riflettendoci un attimo sopra, sembra che ogni intervento pubblico rechi al suo interno una malcelata sadica ironia come l’idea, con lavori già avviati, di costruire, nello spazio lasciato vuoto dall’abbattimento di alcune vele, la facoltà di scienze infermieristiche: scelta evidentemente ritenuta ideale per un quartiere considerato malato e bisognoso delle cure di personale parasanitario altamente specializzato. Nell’attesa e nella continua sollecitazione di comunque necessari interventi strutturali da parte dell’amministrazione che siano più organici e coerenti con i bisogni di un quartiere, nonostante tutto, con forti potenzialità di sviluppo, continuerà senza sosta la quotidiana r-esistenza di gente che continua a credere che, oltre e al di là dell’intervento pubblico, è una mentalità che nel tempo va cambiata, continuando a proporre tutto ciò che possa creare relazioni ed occasioni di incontro capaci di ampliare sempre più il numero di persone, unico vero presidio anticamorra, che vogliono dare il loro contributo per dare al posto in cui vivono un volto nel quale possano riconoscersi e finalmente farlo riconoscere anche dall’esterno come un posto in cui prevale il segno identificativo di una cultura espressione dei valori più alti dell’uomo. Solo in questo modo sarà possibile realizzare quanto racchiuso in un pensiero di Ernesto Cardenal che dice: “il sogno di uno solo è utopia, il sogno di molti è l’inizio di una nuova realtà”. Questo è l’argine che cerca piano piano di elevare chi ormai da diversi anni sta lavorando alla costruzione dell’identità di un luogo, che prima di un luogo fisico deve rappresentare un luogo della propria anima creatrice con l’obiettivo che la cultura della morte possa essere sconfitta dalla cultura di un modo di essere nel quale il Gridas e le centinaia e centinaia di persone, di compagni di strada, si possano riconoscere. Mi piace anche immaginare che in un tempo non troppo lontano alla stazione di Scampia possano salire e scendere giovani provenienti da altri posti, perché nel frattempo nel quartiere avranno costruito teatri, cinema, strutture sportive, piste ciclabili, centri sociali, piazze più umane dove incontrarsi e vedere bambini giocare sugli echi del “Barrito del mammut”(3), un polo universitario che possa portare la linfa vitale di una gioventù in cammino e lungo il tragitto che porta all’esterno della stazione possano osservare sulle pareti l’ opera di Felice, di un uomo che, nella sua utopia, ha indicato una strada da seguire, lungo la quale camminare, sicuramente quella più difficile, ma per noi del Gridas, non ci sono dubbi, l’unica strada, l’unica “utopia” possibile.


Finestra sull’utopia

“Lei è all’orizzonte” dice Fernando Birri.
“Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi
e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là.
Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai.
A cosa serve l’utopia?
Serve proprio a questo: a camminare”.
Tratto dal libro di Eduardo Galeano
Las palabras andantes-Parole in cammino


(1) Fuga di notizie: giornale di quartiere.
(2) Dalla canzone “Felice” di Daniele Sanzone.
(3) Periodico del Centro territoriale a Scampia.


Franco Vicario
16/02/2010