Addio al re delle utopie sui muri
Il Mattino, 17 marzo 2004
Ha sempre lottato tenacemente contro il sonno della ragione, quello che genera mostri. Ma nulla ha potuto contro il sonno eterno che l’ha ghermito ieri, appena sessantatrenne, in quella Napoli dove - dalla natìa Puglia - da oltre trent’anni aveva scelto di vivere e lavorare. In assoluta, coerente povertà. E a restare più soli, ora, non sono soltanto la moglie Mirella e i loro tre figli, ma tutta la città. Felice Pignataro era una forza della natura. Un combattente pacifista. Un pedagogista di strada spiazzante e provocatorio, generoso e creativo. Lui amava definirsi, con ironia tagliente, pittore «disoccupato e invisibile». In realtà era un artista e un muralista eclettico e geniale, amato forse più all’estero che in patria, dove il paladino della marginalità e dei bambini, il difensore solitario di categorie sociali oppresse, la voce scomoda e provocatoria di una periferia che non si rassegna a rinunciare ai propri sogni e bisogni risultava talora sgradita a qualche bempensante: sorte del resto comune a molti profeti. Laici e religiosi.
La fede di Felice Pignataro, non digiuno di studi teologici e ottime letture, era assolutamente laica, ma irriducibile. Radicale. Credeva nell’umano, nei suoi diritti e nella sua dignità. E tentava, con un impegno incessante e minoritario, di dar voce a chi non l’ha, soprattutto nelle periferie più degradate, senza mai smettere di nutrirsi delle tre virtù enunciate da Todorov: indignazione, semplicità, compassione. Con questo spirito si è impegnato nella «scuola popolare» dal 1967 al 1978, prima nelle baracche del campo Arar di Poggioreale, poi al rione Ises di Secondigliano, tra i ragazzini della scuola 128 e tra i bambini Rom, oltre che al fianco degli handicappati, dei giovani e degli anziani di Scampìa. Un’azione pedagogica sempre gratuita, caparbia e infaticabile, confluita nel 1981 nella fondazione del Gridas (Gruppo risveglio dal sonno) con il quale, coinvolgendo scuole ed associazioni, ha tra l’altro promosso e organizzato ogni anno, per oltre vent’anni, manifestazioni, feste popolari e rutilanti Carnevali di quartiere «a tema», usando le maschere - prodotte attraverso la sapiente arte del riciclaggio dai suoi laboratori collettivi di pittura, musica, teatro - in funzione di critica sociale. Come le geniali «televisioni a mano», teatro minimo di strada ma anche resistenza all’obnubilamento mentale da tubo catodico.
Minuto e scarno, occhi brucianti, attitudine alla festa, Felice Pignataro riversava la sua energia creativa soprattutto nei grandi murales: oltre 250 «utopie sui muri» che hanno acceso di colori e di sogni l’hinterland partenopeo ma anche Trento e Reggio Calabria, Roma, le Marche e persino Duisburg, in Germania. Una vita donata a tingere di allegria il grigiore cementizio dei ghetti urbani, per far «riemergere la libertà» persino dalle lamiere di recinzione alle fermate degli autobus, operazione definita «Manutenzione volontaria della cosa pubblica, ovvero autogestione del territorio». L’ultima ferita, dalla quale non si era mai ripreso, il dolore per la distruzione del suo «mosaico della Resurrezione» sulla facciata dell’omonima chiesa di Scampìa, un’opera alla maniera di Gaudì di recente eliminata per intonacare ex novo la parete ormai rovinata. Voleva rifarla, non gli è stato possibile. L’ultima (re)azione, l’occupazione e il recupero del centro sociale abbandonato dell’Ina casa a Scampìa, per dar vita alla Casa delle culture Nuvola Rossa. Ora, tornerà in Puglia, a San Vito dei Normanni, dove desiderava che le sue ceneri fossero sepolte sotto un antico ulivo.
Donatella Trotta