Le case popolari
Quando le prime famiglie vennero ad occupare le case dell'ISES, dovettero combattere contro il guardiano, contro le guardie e contro l'altra gente che pure voleva le stesse case.
Le case stavano là: le stavano costruendo da molto tempo, ma l'impresa che ci stava lavorando, non si sa come, fallì e le case restarono là mezzo fatte e mezzo scarrupate, a guardare il cielo con le finestre senza vetri e con gli ingressi senza porte.
Ma il fatto succedeva a Napoli. A Secondigliano e a Napoli c'era molta gente che stava ad abitare in buchi combinati peggio di quelle case fatte a metà.
Così la gente andò ad occupare le case.
Dove c'erano solo muri arrangiati e grezzi, arrivò la vita e le case conobbero l'ammuina dei quartieri popolari prima di quando avrebbero voluto le autorità che avevano fatto finta di non vedere le ingiustizie che succedevano nella costruzione delle case popolari.
Ma la storia delle case di Secondigliano non era ancora finita.
Dopo quasi un anno quelli che avevano occupato le case se ne andarono, perché il comune dette loro un sussidio di trentamila lire al mese per far liberare le case.
Loro dovettero arrangiarsi da qualche altra parte e le case non li videro più.
Arrivarono altre famiglie e le case stettero di nuovo in compagnia. Era la stessa storia di prima: le case erano senza vetri e umide e gelate e senza fogne e senza luce elettrica.
La gente ci stava male, ma non protestava perché aveva paura di perdere la casa appena avuta.
Le autorità da anni li avevano abituati a sentirsi disgraziati e sfortunati, come se fossero stati meno uomini degli altri e li trattavano come bestie e loro non protestavano perché credevano che quello fosse il loro destino.
Le case non potevano dire niente perché erano solo case, cioè erano fatte di pietra, ma ci soffrivano e si vedeva perché stavano là, mezzo scarrupate, come corpi di animali ammalati, che nessuno voleva curare. Erano come la roba da mangiare che uno mette da parte per mangiarsela dopo e quando va a prenderla la trova guasta e la deve solo buttare.
Così le autorità avevano messo da parte le case perché volevano darle a chi dicevano loro, ma invece riuscirono solo a rovinare le case senza concludere niente.
Quelli che pagarono le conseguenze furono però gli abitanti delle case, che dovettero stare nelle case rovinate e abbandonate perché nessuno voleva aiutarli e nessuno voleva riconoscere che era colpa sua avere messo la gente in quelle case.
Così la gente stava sempre peggio perché non sapeva a chi ricorrere per avere giustizia.
Ormai avevano tentato quasi tutto: avevano perfino scritto ai giornali, ma non era successo riente e loro stavano uscendo tutti pazzi. E le case stavano sempre là, come testimoni della ingiustizia e della cattiveria degli uomini.
Le case servivano anche ad altre cose: per qualcuno erano una specie di proprietà e per altri erano una specie di carcere per i figli.
Così ognuno si vendicava di non poter migliorare le sue condizioni, inventandosi che le case erano bellissime e comode, e si sentiva padrone di un tesoro, o teneva i figli chiusi dentro, per dimenticarsi di essere stato nelle baracche, all'aria aperta.
Nessuno capisce ancora che per aggiustare le case bisogna unirsi, lavorare tutti insieme e così stanno sempre peggio, perché si abituano a stare male e poi non sapranno più capire che cosa è giusto e che cosa non lo è.
E le case stanno ancora là, come un carcere per i poveri cristi, fabbricato da una società che li tiene lontano perché non ha coscienza e li mette nei buchi per non vederli, in maniera che la sua coscienza non si risvegli.
Scuola 128, 16 marzo-7 aprile 1971.