Le potenzialità della pittura
11 luglio - 13 settembre 1990 (tranne il mese di agosto).
Murale sulla facciata e le barriere di recinzione del cortile della sede della Comunità Artigiana di Marano (Na).
Una foresta, l’intervento sulla natura senza violentarla, le testimonianze di trattatisti e studiosi della decorazione, l’arcobaleno come catalogo naturale dei colori, il Modulor, ecc. ecc. e la magia della pittura per fare scomparire le barriere e apparire le scritte e gli alberi secondo l’angolo di osservazione.
Testo illustrativo
Siamo stati molto contenti della richiesta della Comunità Artigiana di fare un murale sulla facciata della sua sede, perché nutriamo ammirazione e stima per questa realtà esemplare di lavoro associato: un modello per un’organizzazione diversa della società, che elimini lo sfruttamento e non espropri i lavoratori del prodotto della loro fatica e del protagonismo nella loro vita.
Questo c’entra anche con il significato del nostro intervento perché noi non facciamo murales per “decorare” o “abbellire” muri bensì per dire delle cose (“jo no canto por cantar, ni por tener buena voz”, cantava Victor Jara!) che possano essere capite da tutti e invitare a riflettere. Ma siccome non per tutti è immediato leggere le cose disegnate e non sempre i disegni riescono abbastanza chiari nell’esecuzione, checché ne pensasse il sig. Benedetto Croce, ecco la necessità di questo scritto.
La facciata della sede della Comunità Artigiana si presentava come una superficie di nove elementi modulari prefabbricati, intervallati da dieci costoloni verticali aggettanti. Alle estremità interrompono la continuità della facciata due grandi porte in ferro anch’esse dalla struttura modulare, quadrettata, con nervature sporgenti; un’altra porta più piccola, affiancata alla porta più grande, ha la stessa struttura, ma i quadrati sono sostituiti da rettangoli col lato lungo in verticale. La parete è alta circa nove metri lunga circa ventitre. Ai lati due muraglioni di cemento armato, alti circa due metri, sormontati da un’inferriata di profilati rettangolari, alta circa tre metri delimitano due lati del piazzale; il terzo è un’altra inferriata terminante ai lati con due cancelli, una ventina di metri di lunghezza per lato.
Da una parte si voleva far scomparire l’aspetto troppo da capannone industriale della costruzione e le barriere delle inferriate e dei muraglioni, dall’altra si cercava un’idea che esprimesse e sintetizzasse gli ideali e l’operatività della Comunità Artigiana.
I costoloni verticali richiamavano immediatamente l’idea di tronchi d’albero, mentre il lavoro dei pittori della Comunità Artigiana esigeva che si esprimesse l’idea di un’attività svolta “a misura d’uomo”.
Così è nato il richiamo al “modulor” di Le Corbusier, un architetto svizzero che tentò una progettazione “scientifica” della casa come “macchina per abitare dimensionata sulle proporzioni del corpo umano e con un grande rispetto della natura: inventò la casa su pilastri di cemento armato per non rubare che un minimo spazio al prato, e il tetto col terreno per piantarci gli alberi, così che le costruzioni, lungi dal cementificare i campi raddoppiassero piuttosto le superfici a verde. Cose da non dimenticare in tristi tempi di “postmodernismo” dove un po’ ovunque sembra dimenticato ogni principio razionale e ogni corrispondenza funzionale per gareggiare a chi stupisce di più, una sorta di neo barocco, come dice Omar Calabrese!
A sintetizzare queste idee si è scelta l’immagine dell’uomo col braccio alzato, usata da Corbu per compendiare la scala dimensionale su cui basare la progettazione degli elementi della casa: il braccio alzato per l’altezza minima del soffitto e per il livello delle mensole o di mobili raggiungibili senza ausilio di scale, il braccio abbassato con la mano orizzontale per determinare l’altezza giusta di tavoli e parapetti. La figura però si è dilatata all’altezza di tutta la parete, un po’ meno di nove metri, fino al limite delle toghe, nell’unico pannello non interrotto da porte, grate o finestre.
È un’immagine divenuta compendio-simbolo della necessità di rapportarsi all’uomo nell’intervenire con i nostri progetti sull’assetto del territorio, la natura, simboleggiata da questa foresta di alberi, tanti quanti i costoloni, che intrecciano in alto i rami, sulla sommità della parete a costruire un tetto di foglie, stilizzate, ma diverse nella sagoma per ogni albero, come diversi sono i colori dei tronchi, e con diverse tonalità di verde (i tredici verdi delle valli del Guatemala, di cui parlava Miguel Angel Asturias ne “Gli occhi che non si chiudono”!). Non si può dimenticare a proposito un accenno all’efficacia di un pennello ben intriso di pittura e brandito a distanza per combattere le vespe: in ogni buco corrispondente agli incastri dei pannelli con le strutture verticali di sostegno avevano stabilito la loro dimora colonie di vespe: ci si è difesi con la pittura, senza spiacevoli incidenti.
Così il progetto del murale è venuto prendendo forma e sviluppandosi, sulla base di queste due idee guida: c’è una preesistenza della natura all’azione dell’uomo, rappresentata dal bosco. L’operatività dell’uomo interviene sulla natura, ma questo intervento va compiuto senza tradire un giusto rapporto dell’uomo con la natura, e quindi “a scala umana”. Solo così, invece di distruggere si costruisce veramente e si crea un equilibrio. Il rapporto conflittuale e primitivo dell’uomo selvatico con la foresta è recuperato nel rapporto amichevole dell’uomo civilizzato che ha imparato a costruire e modificare, a intervenire nell’ambiente naturale senza distruggere indiscriminatamente ma anzi migliorando il rapporto con la natura con l’inserimento armonioso delle sue opere nell’ambiente. Questo è simboleggiato dalle ampie fasce nere che trasformano le finestre e i finestrini in case arboree, ancorate agli alberi, mentre il rapporto corretto con la natura, l’elaborazione di una progettualità “umana” è stato raffigurato cercando, a partire da Le Corbusier, altri che nel passato pure si sono occupati di tali questioni. Le idee espresse da costoro si sono illustrate su fogli volanti fra gli alberi, che recano sulla superficie dei disegni, ma altre linee indicano uno spessore di più fogli, di altre ricerche non illustrate nel murale e magari ai più o a tutti sconosciute, alludendo agli studi e ai tentativi e alle mode che hanno avuto luogo nei secoli.
Si sono scelte come emblematiche alcune: l’immagine di Leonardo da Vinci dell’uomo inserito in un cerchio e un quadrato concentrici (il centro è l’ombelico) altro esempio di studio di proporzioni, un po’ intellettuale, pur definendosi Leonardo “homo senza lettere”, perché il problema sotteso è quello della quadratura del circolo, cioè della misurazione di una linea curva, la cui soluzione è additata nel movimento delle braccia e delle gambe dell’uomo che, da misura dei lati del quadrato diventano raggi del circolo, ma altri significati vi si possono scoprire, cosmici e magici: se il circolo simboleggiasse il mondo libero e il quadrato la costrizione e la limitazione, ecc.
In alto svolazza un foglio con un volto umano su una quadrettatura: allusione ai disegni di Villard d’Honnecourt, costruttore di cattedrali, con lo studio delle proporzioni del corpo umano per poterle riprodurre in scala diversa nelle sculture gigantesche o in dimensioni minime sulle facciate, ma qui è anche allusione al fatto che ogni progettazione è progetto sull’uomo e sortisce comunque effetti sulla sua vita. Nel foglio sottostante sono sintetizzate alcune considerazioni sulla visione. Il foglio che taglia la “piramide visiva” dall’occhio ai contorni delle figure reali, riproducendo in scala ridotta le figure come negli studi di Albrecht Durer ma anche degli altri studiosi e inventori della prospettiva, appunto una “forma simbolica” come la definisce il Panofski sullo stesso foglio sono richiamate per allusioni altre potenzialità magiche della visione, l’astrologia, l’occhio rivolto al futuro, la lettura della mano, i simboli alchemici, richiamo ai misteri che l’occhio indaga, svela, ricrea.
Così nel foglio in basso che fa capolino da dietro un tronco compaiono una collana con elementi architettonici dell’antichità classica e affianco una figura umana, questa volta una donna, richiamo a Vitruvio e, ai trattatisti del Rinascimento che lo riscoprirono, individuando nella somiglianza fra la figura umana e la colonna una sorta di umanizzazione dell’architettura (il capitello corrisponde alla testa, i piedi alla base, il fusto della colonna al tronco del corpo umano) ma anche, chi sa, un accenno al misterioso rapporto tra la vita e la costruzione, i sacrifici umani che dovevano garantire la stabilità e l’inviolabilità della fabbrica, simboleggiate poi nelle tante cariatidi e telamoni, figure di pietra che tengono il posto degli uomini veri per reggere la costruzione.
Sopra svolazza un foglio con il disegno di un improbabile mostro, allusione alle figure grottesche che ornano le cattedrali gotiche, studiate da molti, fra cui John Ruskin, per cercare di capirne il mistero. Sembrerebbero mettere in discussione la precisione della progettazione e della costruzione con l’irruzione dell’irrazionale; anche le case dell’Oceania e di tanti altri popoli sono popolate di mostri: si tratta soltanto di esorcizzare i demoni e le forze del male, avendo coscienza che costruire sul selvatico può irritare gli spiriti del luogo, padroni di casa irascibili, concetto che noi oggi esprimiamo come necessità del rispetto della natura e dei suoi equilibri la cui compromissione è ben più funesta delle oscure minacce temute dagli antichi come noi oggi stiamo sperimentando.
Questi studi, tentativi, ricerche, ci sembrano utilmente riassunti nel foglio grande che un tronco non riesce a celare e quindi sporge ai due lati che allude alla tavola dipinta attribuita a Pietro di Cosimo una visione della piazza della “città ideale”, immagine serena di una prospettiva centrale, due fughe di archi ai lati, e l’immancabile pavimento a scacchi bianchi e rossi del Quattrocento, epoca in cui le città si costruivano per gli uomini e non per i “mondiali”!
Più in basso un altro foglio allude alla continuazione delle ricerche: è un richiamo ai trattatisti dell’Ottocento che, avendo studiato l’ambiguo rapporto fra le costruzioni e le decorazioni tentarono una organizzazione sistematica, scientifica, del problema. L’allusione è alla “Grammatica dell’ornamento” di Edward Burne Jones e si richiama alla costruzione di motivi decorativi partendo da forme elementari, per esempio un quadratino diviso da una diagonale, il che genera due triangoli che possono essere differenziati colorandoli diversamente e ripetuti e accostati in diverse combinazioni producendo così un proliferare di motivi decorativi. Il colore giallastro di alcune carte allude all’antichità dei fogli e dei relativi studi. Ma l’idea di un elemento semplice che ripetendosi infinite volte genera una fantasmagoria di forme rimanda immediatamente alle ultime diavolerie della tecnica: i frattali, simulazioni delle forme naturali e forme decorative generate dai computers con il semplice ripetersi, in più direzioni, in diverse scale, dell’alternativa 0-1 (sì o no, bianco o nero, + o -) ripetuti all’infinito ma con un codice, un “programma”. Così le ultime due finestre sopra la porta grande sono state trasformate in schermi di computer, ma a sottolineare la non disumanità cui dovrebbe aspirare lo sviluppo della tecnica, i computers sono sovrastati dall’inizio di un arcobaleno che si perde fra le foglie degli alberi, per ricomparire fra le prime due finestre all’estremità opposta della parete, da una delle quali pende un rotolo di carta con i progetti attuali: i progetti, contratti, tabulati della Comunità Artigiana, giacché le finestre corrispondono agli uffici, il “pensatoio” della comunità.
Restavano le porte.
La più piccola, data la forma a rettangoli allungati, è stata trasformata in una pagina di catalogo di colori, elencando in verticale diverse tonalità e dipingendo in bianco le nervature, a simulare un foglio di carta, sorta di contemporaneo industrializzato e massificato manualetto di ornamentazione (la grammatica dell’ornamento dei nostri giorni?). La porta grande, che corrisponde al magazzino dei colori, è stata dipinta in modo da simulare allusivamente una catasta di bidoni di colore, sfruttando la trama della superficie, per ogni bidone due quadratini per tre, ma variando per simulare sovrapposizioni e forme diverse, di colore diverso per evidenziare all’esterno il contenuto. Su un solo bidone si è dipinto il manico e alcune scolature di colore perché sia più facile capire.
L’altra porta è stata dipinta con una cascata di colori nell’ordine in cui compaiono nell’arcobaleno, per collegarsi con l’arcobaleno in alto, chè l’arcobaleno, oltre che una sorta di “campionario” naturale dei colori è pure l’effetto della diffrazione della luce solare, ma nel mito è simbolo della pace, di ogni essere vivente e del mondo con Dio (Genesi, cap. IX, vv. 12-17) e qui ci si richiama al mito per sintetizzare in un’immagine questa armonia tra l’uomo e il mondo, la natura, gli altri uomini, che vogliamo costruire.
La grata del condizionatore d’aria che occupa la base del pannello affianco all’uomo-modulor è stata trasformata in una facciata di edificio nel mucchio di case che si affollano sotto la mano dell’uomo, con qualche ulteriore riferimento all’opera di Corbu, la villa Savoye, la prima casa su pilastri con le pareti tutte a finestre per non rinchiudersi, l’unità di abitazione di Marsiglia, la cappella di Notre Dame du Haut a Ronchamp, esempi di sacralizzazione del lavoro che reca tutta intera la carica umana del suo autore, a dispetto di ogni asetticità “scientifica”.
Restavano le barriere delle inferriate e dei muraglioni di cemento armato.
Siccome dipingere, anche se è solo imbiancare è creare qualcosa, è comunque intervento sul paesaggio artificiale che può modificarlo e trasformarlo, ai lati della facciata si sono offerti degli esempi delle potenzialità della pittura: fiori giganteschi, animali fantastici, e, per finire, la dipintura di erba e alberi sui profilati delle inferriate, che hanno creato un effetto magico: gli alberi dipinti scompaiono insieme con la cancellata, se si guarda di fronte, confondendosi con gli alberi dei campi circostanti: compaiono invece a interrompere la barriera di ferro se si guarda di lato e lo spessore dei profilati nasconde gli alberi retrostanti. Questo perché gli alberi sono stati dipinti su tre lati dei profilati e i profilati sono stati prima dipinti del colore del cielo.
La possibilità di abbattere barriere dipingendole è, ovviamente, solo un miraggio, ma può diventare l’indicazione di una prospettiva cui tendere perciò amiamo dire che i nostri murales rappresentano l’utopia sui muri!
La scritta “COMUNITÀ ARTIGIANA” a lettere allungate orizzontalmente in modo che guardando obliquamente, come solo consente la strettezza della strada di accesso, si possano leggere agevolmente sulla parte fissa dell’inferriata verde lungo la strada, completa l’opera, indicando a chi passa l’intenzione e il luogo dove si lavora perché i concetti suesposti diventino realtà. Una indicazione anche questa un po’ magica: passando velocemente per la strada i profilati dipinti in verde che prima sovrapponendosi nell’immagine creavano una barriera, scompaiono e lasciano vedere le figure colorate all’interno, ma è come se fosse un sogno: una volta passati, se ci si volta ricompare la barriera, ma noi sappiamo che ciò che abbiamo dentro non è solo un sogno, cerca solo uno spiraglio per uscire e diventare realtà.